Morta per un tumore causato dall'amianto, la multinazione firma l'accordo per il danno parentale

24/09/2025
La rimozione di pannelli di amianto (archivio)
La rimozione di pannelli di amianto (archivio)
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Il “danno parentale” riportato dai familiari di un’operaia saldatrice, morta a causa di un tumore ai polmoni causato dall’essere rimasta per oltre vent’anni a contatto con l’amianto, ha introdotto una rivendicazione, non frequente, esaminata in una causa di lavoro promossa dagli eredi della donna nei confronti di una delle più importanti aziende che hanno operato nel Nucleo industriale fino al primo decennio 2000, in seguito assorbita, dopo vari passaggi societari e cambi di denominazione, da una multinazionale delle telecomunicazioni del nord Europa. Vertenza conclusa con una transazione tra le parti dopo le prime udienze, che ha riconosciuto ai familiari dell’operaia scomparsa un consistente risarcimento e ha evitato una sentenza che, in caso di condanna, avrebbe potuto costituire per la multinazionale un pericoloso precedente. Sino ad oggi, infatti, il tribunale di Rieti si è sempre dovuto occupare di procedimenti legati al riconoscimento chiesto dai lavoratori dell’indennità prevista per chi è rimasto esposto all’amianto durante il periodo previsto dalla legge, in modo da ottenere un assegno pensionistico più alto. E sono state centinaia le decisioni risultate favorevoli a ricorrenti impiegati in molte fabbriche: è avvenuto per decine di cause che hanno riguardato Texas Instruments, Telettra-Alcatel, ex Snia Viscosa, Vanossi, Tre I, ex Lombardini Intermotor, Baxter, e anche class action promosse dai sindacati confederali. Ma di cause promosse per il riconoscimento dei  danni alla sfera affettiva provocati nei familiari di coloro che, invece, erano morti a a causa dell’amianto, non si è avuta notizia ufficiale.

La consulenza

Nel caso dell’operaia saldatrice sono state decisive le conclusioni raggiunte dalla consulenza del medico legale Albertina Ciferri, che hanno evidenziato la stretta correlazione tra il tumore, scoperto quando ormai era troppo tardi per intervenire, e le cause che l’avevano provocato, riconducibili ad ambienti contaminati dove l’amianto era presente un po’ ovunque, dai guanti indossati dalla lavoratrice ai pannelli, ai materiali che componevano porte, infissi, tappetini, pareti di macchinari, per finire all’assenza di schermature idonee a evitare la dispersione delle sostanze inquinanti prodotte dalle coperture in eternit degli stabilimenti. Una malattia, come accertato dagli esami specialistici, nata dalla lunga e continua esposizione ai materiali di amianto presenti nell’ambiente e negli strumenti di lavoro utilizzati dalla dipendente, che hanno costituito la base del risarcimento per il “danno parentale” concordato tra il marito e i quattro figli (assistiti dall’avvocato Federico Fiocco del foro di Rieti) e la multinazionale delle telecomunicazioni (difesa da un noto studio legale di Milano), arrivato dopo l’invito rivolto dal giudice del lavoro Alessio Marinelli, prima di entrare nel merito del processo. Sulla cifra vige la clausola di riservatezza, ma è stata giudicata  congrua dai familiari che avevano avviato il procedimento dopo la scomparsa della congiunta, ma l’Inail, pur riconoscendo al marito l’indennità specifica da aggiungere alla pensione di reversibilità del coniuge, non aveva potuto decidere nel merito del danno affettivo nonostante lo stesso istituto avesse accertato l’esistenza del nesso di causalità tra l’esposizione all’amianto e l’insorgenza del tumore. La legge non lo prevede ed è per questo che la questione, nel 2019, era stata portata all’esame del giudice del lavoro, fino all’accordo finale.