"Il sequestro del polo culturale? Un dispetto alla città e invidia politica"

03/01/2021
L'avvocato Innocenzo de Sanctis
L'avvocato Innocenzo de Sanctis
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Ha assistito da spettatore, seppure come ex presidente della Fondazione, alla conclusione giunta dopo sette anni di una lunga vicenda giudiziaria che ha bloccato l’attività delle Officine Varrone, il polo culturale sorto nel quartiere di San Francesco, luogo dove fino al secolo scorso batteva il cuore pulsante dell’artigianato locale. A largo San Giorgio, la bella biblioteca e la palestra di inglese sono chiusi dal 14 febbraio 2014, giorno in cui la Forestale, in seguito a degli esposti, sequestrò gli immobili in odore di abusi edilizi. Adesso, dopo la sentenza della Corte di Appello che ha assolto con formula piena i principali imputati e ha dichiarato estinte le violazioni, oggetto di una sanatoria pagata mentre era in corso il primo processo di Rieti, nelle prossime settimane saranno tolti i sigilli e le opere sequestrate torneranno fruibili.

La riapertura

A tagliare il nastro della riapertura (Covid19 permettendo) - dopo la positiva parentesi (troppo breve) vissuta in Fondazione con la presidenza del notaio Antonio Valentini, mai abbastanza rimpianto -  sarà un non-reatino, chiamato a guidare l’istituto di via dei Crispolti secondo una regola non scritta che costruisce ponti d’oro agli stranieri e strade con le buche ai locali, ma tant’è, così va il mondo anche negli altri campi della vita. La storia, però, non cancella  Innocenzo de Sanctis, considerato il padre ispiratore delle Officine Varrone, il polo arricchito dall’ex chiesa di San Giorgio, presidente dell’istituto quando il progetto, con l’indispensabile voto favorevole degli altri membri del consiglio di amministrazione, prese corpo verso la fine del primo decennio 2000. Avvocato, insignito nel 2017 dal Consiglio dell’ordine forense della toga d’oro per i 50 anni di professione, con un passato da pretore reggente a Cittaducale, presidente dell’Aci Rieti e con cariche ricoperte anche a livello nazionale, de Sanctis traccia un bilancio della travagliata vicenda.

Traditi dalla fretta?

“La mia unica colpa è stata quella di voler regalare alla città un luogo di crescita culturale che fino a quel momento non esisteva e, forse, nella fretta di realizzare prima possibile il progetto posso aver commesso degli sbagli, ma certamente non reati penali, e non ho rimproveri da farmi e neppure da fare ai tecnici. Abbiamo fatto decine di riunioni, messo sotto pressione chi stava lavorando, insomma, se sollecitavo gli interventi era solo perché lo ritenevo un mio preciso dovere, non bisogna dimenticare che stavamo spendendo soldi provenienti dal risparmio dei cittadini e assegnati alla Fondazione per opere di interesse pubblico ”.

Come ha vissuto il sequestro?

“Con angoscia e amarezza, sul momento ho provato un profondo sconforto perché mi rendevo conto che Rieti veniva privata di una realtà che sarebbe potuta diventare importante per tutta l’economia cittadina. In soli due anni di attività, erano state organizzate iniziative di forte richiamo anche turistico, a largo San Giorgio venivano  visitatori anche dalle città limitrofe e questo aumenta il mio dispiacere nell’aver perso anni preziosi in cui il livello culturale di Rieti sarebbe potuto crescere. Di quei giorni amari conservo una foto alla quale tengo molto.

Ritrae due studenti, seduti sui gradini davanti alla biblioteca sequestrata, con in mano i libri mentre studiano per prepararsi agli esami. Non si rassegnavano alla chiusura, come tanti altri, perché la biblioteca era diventata un punto di riferimento talmente frequentato che decidemmo di lasciarla aperta fino alle dieci di sera. Anche la palestra di inglese stava riscuotendo grande successo, ci venivano a studiare non solo gli studenti, ma pure i docenti a tenere lezioni di lingua. Lo stesso è accaduto con la scuola di cinese”.

La biblioteca non poteva restare a Palazzo Crispolti?

“Assolutamente no, e spiego perché. Il Comando dei vigili del fuoco ci comunicò che i libri non potevano rimanere nel piano che li ospitava perché, in caso di incendio o emergenza, i mezzi di soccorso non sarebbero potuti arrivare agevolmente per la ristrettezza della strada. Quindi, o costruivamo un enorme serbatoio di acqua all’interno da usare in caso di necessità, oppure l’agibilità non poteva essere concessa. Di qui nacque la necessità di trasferire i volumi in un altro luogo.

La scelta di largo San Giorgio fu del tutto casuale. Aggiungo che ero reduce da un viaggio a Tormina e avevo visitato una biblioteca allestita dentro un ex chiesa. Un bel lavoro, che mi colpì, così quando vidi il cartello vendesi affisso fuori San Giorgio pensai di fare lo stesso. Ma non fu possibile, per ragioni antisismiche, realizzare più di un piano e allora fu individuata la soluzione attuale, ricavata da un ex opificio abbandonato da anni, che la  proprietà è stata felice di vendere. Insieme a quei locali abbiamo poi acquistato altri immobili in disuso che avevano reso la zona, un tempo florida di attività, un’area degradata”.

Domande senza risposta

“Non so darmi una spiegazione per quanto accaduto, sono convinto che è stato fatto un danno alla città e non solo alla Fondazione, frutto dell’invidia. In America c’è un detto secondo cui “non esiste buona azione che non resti impunita”, ebbene credo che sia il caso delle Officine. Non escludo neanche una componente politica. Uno dei progettisti, l’ingegner Andrea Cecilia, era assessore all’Urbanistica e probabilmente la sua esposizione è stata vista da qualche rivale come un pericolo. Forse hanno voluto fare un dispetto anche a  lui, ma non certo a me che non mi sono mai schierato politicamente restandosempre  equidistante. Allora dico che in politica l’avversario deve essere battuto sul suo stesso terreno, non ricorrendo ad altri mezzi che, poi, finiscono per procurare danni collaterali importanti, in questo caso alla città. Adesso bisognerà recuperare il tempo e le occasioni perdute, ma non sarà facile”.