Femministe contro l'avvocato al processo per violenza: "Arringa maschilista"

25/01/2021
Il penalista (a sin.) e il procuratore La Sala
Il penalista (a sin.) e il procuratore La Sala
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Il suo è stato uno dei pochi processi che negli anni 70 videro scendere in piazza nel Reatino i movimenti femministi, mobilitati in difesa di donne vittime di violenze e abusi. Uno scontro che, in poco tempo, si trasferì dall’aula del tribunale alle redazioni dei giornali, infiammando le cronache e dividendo l’opinione pubblica. In mezzo, c’era lui, l’avvocato Felice Gianfelice, apprezzato storico delle religioni (scomparso negli anni scorsi), autore di opere librarie sulle vite di Papa Celestino V e di San Francesco da Assisi, penalista chiamato a difendere i primi pentiti del terrorismo rosso, due cugini arrestati dai carabinieri dopo la scoperta, nel 1978, del covo delle Unità Combattenti Comuniste a Vescovio di Torri in Sabina, nonché coinvolto in casi di rilevanza nazionale, come quello dove rappresentò le parti civili nel processo contro il boia nazista Erich Preibke.

L'aggressione

Insomma, un professionista a tutto tondo che però, nel marzo 1977, si trovò ad assumere la difesa di un uomo, uno straniero, arrestato per aver picchiato l’ex moglie reatina che si stava recando al teatro Moderno per assistere a uno spettacolo. Il copione dell’aggressione ricalcò altri precedenti episodi di maltrattamenti, con schiaffi e calci rifilati alla donna che non ne voleva sapere di riappacificarsi con l’ex marito dopo la separazione. A bloccarlo ci pensarono i componenti di una pattuglia di polizia e così l’uomo, come previsto dal vecchio codice di procedura penale, fu processato in tribunale con rito direttissimo, difeso dall’avvocato Gianfelice.

 Il legale, nel corso dell’arringa, cercò non solo di ridimensionare l’accaduto (la vittima non era stata refertata in ospedale per lesioni) attribuendolo a un diverbio tra moglie e marito, seppur separati, ma si battè per far riconoscere al suo cliente le attenuanti in grado di ridurre al minimo la pena. E bisogna dire che il suo sforzo difensivo fu premiato, perché alla fine i giudici condannarono l’imputato a un anno e quattro mesi per i reati di violenza privata, minacce e resistenza a pubblico ufficiale.

L’attacco

I contenuti dell’arringa, definita “maschilista”, scatenarono però la reazione delle femministe, le quali  a decine, insieme al Collettivo Gramsci, avevano affollato il palazzo di giustizia per seguire tutte le fasi del dibattimento in segno di solidarietà con la donna picchiata. Gli attacchi portati all’avvocato furono al calor bianco e Gianfelice fu accusato di aver “pronunciato un intervento basato su concezioni ataviche del rapporto tra uomo e donna e coerente con il modello di famiglia patriarcale-borghese sul quale si fonda la società capitalista organizzata dai maschi. E’ stata rilanciata l’immagine della moglie oggetto, della quale il marito può disporre come meglio crede visto che la considera una proprietà”.

Uno scontro che infiammò l’opinione pubblica, in anni in cui cresceva il fenomeno del terrorismo e in Parlamento venivano presentate proposte di legge per migliorare la condizione femminile nel mondo lavorativo e sociale. Gianfelice non arretrò di fronte all’incalzare femminista e replicò: “I difensori hanno un dovere preciso, vale a dire sostenere la versione dei fatti fornita dall’imputato e su quella base impostare la propria tesi. Il racconto del mio cliente è apparso verosimile rispetto a quanto avvenuto, la moglie non ha neppure riportato lesioni. E, poi, quali idee arcaiche avrei? Basti dire che a Rieti ho fondato la Lega per il divorzio e la mia firma è apposta sotto il referendum sull’aborto. Bastano questi esempi per smentire chi mi contesta”.

Altri strascichi polemici accompagnarono la vicenda nei giorni seguenti, ma quel processo, ancora oggi, viene ricordato come una tappa storica che segnò a Rieti l’esordio ufficiale sulla scena dei movimenti femministi, fino ad allora protagonisti esclusivamente nelle grandi città.