Case coloniche trasformate in ville di lusso, la truffa scoperta da un giudice in aliante

25/10/2020
L'inchiesta sulla stampa
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Pochi casi, nella storia giudiziaria reatina, sono stati capaci di suscitare un interesse in grado di andare oltre quello processuale. Ci riuscì, nell’ottobre del 1983, quello passato alla storia urbanistica-giudiziaria come il caso delle “fattorie con moquette”, vicenda che accomunò vip e meno vip in un’unica accusa: quella di aver più o meno furbescamente aggirato le norme edilizie, trasformando casali agricoli in residenze di pregio sulle colline del comprensorio La Foresta-Castelfranco.

Venne ritenuto, all’epoca, un caso di abusivismo edilizio da manuale che coinvolse un famoso industriale emiliano, medici, liberi professionisti, imprenditori, anche un chiaroveggente, e progettisti, tutti soggetti che nulla o poco avevano a che fare con coltivazioni agricole, dando vita a tre processi, provocando infinite polemiche politiche e tanta ironia tra l’opinione pubblica. Una storia, quella delle case agricole diventate residenze di lusso, in qualche caso ruderi ristrutturati, in altri costruite ex novo, cominciata già negli anni ’70 e portata alla luce da una lunga inchiesta giornalistica condotta dal Messaggero.

Le violazioni edilizie

Fu il pretore Ugo Paolillo, da pochi anni giunto a Rieti dopo le esperienze di Milano e Torino, a trasformare quel clamoroso caso di abusivismo edilizio in un’inchiesta giudiziaria. Narra la leggenda che tutto cominciò da un sorvolo compiuto con l’aliante dal magistrato sulla zona di Castelfranco, in un giorno che non era in servizio, e che la sua attenzione venisse attratta proprio dal quel nugolo di ville immerse nel verde. Tornato in aeroporto decise di vederci chiaro, anche perché la vicenda aveva già lungamente occupato il dibattito politico locale, culminato con accese polemiche scoppiate in diverse sedute del Consiglio comunale svoltesi negli anni precedenti, quando erano stati denunciati gli interventi edilizi abusivi.

Toccò ai carabinieri della squadra di polizia giudiziaria del tribunale, guidata dal maresciallo Giovannino Sabetta effettuare le prime verifiche, sequestrando le pratiche urbanistiche in Comune e dando via all’inchiesta. E, in effetti, il pretore accertò che l’amministrazione aveva rilasciato licenze edilizie per “edificare case rurali con attrezzature atte alla conduzione del fondo agricolo”, ma una volta costruita la casa e lasciati allo stato grezzo gli spazi destinati alle attività rurali e a ospitare gli attrezzi agricoli, i proprietari avevano chiesto al Comune il sopralluogo dei tecnici per ottenere il rilascio del certificato di agibilità. Solo dopo aver ottenuto il nulla osta, era state eseguite le trasformazioni, realizzando, in qualche caso, piscine, taverne attrezzate e altri spazi ricreativi attrezzati che nulla avevano a che vedere con la destinazione d’uso dei locali per scopi agricoli.

Fattorie con moquette

Di qui la denominazione di “fattorie con moquette”, che ottenne risonanza anche oltre i confini provinciali, non fosse altro per lo status sociale degli “agricoltori” coinvolti. Un sistema ingegnoso che, però, fece emergere reati più gravi e dalle violazioni edilizie, contestate inizialmente dal pretore Paolillo, si passò alla truffa aggravata, al falso in atto pubblico e all’omissione di atti d’ufficio, tanto che l’indagine diventò di competenza della procura della repubblica. L’inchiesta condotta dal sostituto procuratore Giovanni Canzio si concluse con il rinvio a giudizio di 37 imputati (i tecnici comunali che rilasciarono i certificati di agibilità furono indagati e poi prosciolti), quasi tutti presenti in aula alla prima udienza del processo iniziato il 1 giugno 1984. La procura sostenne che il Comune era stato truffato perché “nella zona agricola, nella quale era vietata qualsiasi forma d’insediamento residenziale e di urbanizzazione ed era consentita l’edificabilità per le sole case rurali e per le attrezzature atte alla conduzione del fondo agricolo, erano state invece realizzate abitazioni civili, in violazione degli indici di fabbricabilità, spingendo con l’inganno la Commissione edilizia a rilasciare i pareri favorevoli e il sindaco i relativi nulla osta”.

La sentenza di Rieti

La sorpresa arrivò però con la prima sentenza del tribunale, emessa il 26 ottobre 1984 dal collegio giudicante composto dal presidente Alberto Caperna, con i giudici Antonio Filabozzi e Ettore Capizzi, che condannò a una multa di 800 mila lire per omesso controllo un ex sindaco in carica tra gli anni 70 e 80, nonostante la richiesta di assoluzione del pubblico ministero, mentre tutti gli altri imputati furono assolti perché “il fatto non sussiste” dai reati di truffa e falso. Per un ex ingegner capo l’assoluzione arrivò per insufficienza di prove. Un duro colpo per la procura che, peraltro, aveva chiesto solo quattro condanne e una lunga serie di prescrizioni.

La Corte di Appello

La Corte d’Appello, il 12 giugno 1985, ribaltò la decisione del tribunale, accogliendo il ricorso della procura di Rieti e della Procura generale di Roma. I giudici di secondo grado non ebbero dubbi: si trattò di una truffa perché “per riscontrare sussistente l’artifizio o il raggiro non occorre una particolare o astuta messa in scena, essendo sufficiente qualsiasi subdolo espediente per indurre taluno in errore”.

Le motivazioni

Il presidente Marcello Del Forno, relatore della sentenza, scrisse: “Non si può dubitare della sussistenza della truffa perché è stato acclarato che le varie costruzioni abusive sono state realizzate a Castelfranco in zona agricola collinare, dove era vietata ogni forma di insediamento residenziale, rimanendo consentita l’edificabilità unicamente per le case rurali e per le attrezzature necessarie alla conduzione del fondo agricolo, secondo le disposizioni del Piano regolatore generale. Un certo numero di proprietari, dopo avere ottenuto licenze di costruzione per fabbricati rurali, hanno trasformato - operando sulle strutture interne e in spregio agli impegni formalmente assunti con gli atti notarili di vincolo imposti dalla pubblica amministrazione come condizione per il rilascio delle licenze edilizie – gli annessi agricoli in ambienti abitativi una volta esaurita l’attività di controllo del Comune nella fase esecutiva”.

La motivazione inoltre chiarì: “L’impugnata sentenza erroneamente nega la configurabilità della truffa in quanto non esisterebbe un danno di natura patrimoniale per il Comune. Il danno derivante dall’esecuzione della costruzione incide direttamente sul patrimonio della pubblica amministrazione quale rappresentante della collettività. Tale danno, oltre che nell’innegabile turbativa dell’equilibrio ecologico e sociologico del territorio, è ravvisabile nel sopravvenire dell’esigenza di nuovi oneri e costi facenti capo al Comune. Poco importa, in concreto, che il sindaco abbia esercitato il potere di diffida a demolire le opere abusive o che il Comune non abbia ritenuto di costituirsi parte civile: il danno, come elemento costitutivo del reato è comunque da ravvisare come sussistente per effetto del completamento delle costruzioni abusive”.

La sentenza di secondo grado cancellò quella del tribunale: gli ex sindaco e ingegnere capo furono assolti con formula piena, progettisti e direttori dei lavori per insufficienza di prove (non fu dimostrata l’esistenza di un accordo preventivo con i proprietari), ma la truffa risultò prescritta per i privati, dei quali solo tre furono condannati a otto mesi, pena prescritta in Cassazione, dove ricorse anche un ex assessore in veste di progettista ottenendo il totale proscioglimento.